Spesso quando vediamo persone che hanno avuto successo e hanno realizzato i propri sogni, tendiamo a credere che tutto o in parte sia arrivato per caso. Per qualcuno sicuramente è più facile che per altri, ma ad ogni modo c’è bisogno di perseveranza, sacrificio, disciplina, passione e un atteggiamento propositivo.
C’è chi trova la sua “missione” strada facendo, come è accaduto a Pierluigi Vaccaneo, Direttore della Fondazione Cesare Pavese, che è riuscito a realizzarsi grazie alla cultura e alla letteratura, un amore che arriva da lontano. Con impegno e tanta gavetta ha raggiunto traguardi importanti ed è diventato il professionista apprezzato di oggi.

“La cultura potrebbe essere un modo innanzitutto per riscoprire la parte più intima di noi stessi”, è la prima frase che Pierluigi mi ha trasmesso quando ci siamo incontrati per l’intervista. Era esattamente ciò che mi aspettavo, un viaggio ricco di spunti e sfumature.

La cultura è uno strumento di crescita individuale, ma anche collettivo, uno stimolo al confronto, alla condivisione, all’incontro, alla provocazione e riflessione. Ti guarda dentro e ti rimanda fuori con occhi diversi.

Pierluigi è in continuo fermento, ma nonostante i suoi numerosi impegni e la sua quasi completa dedizione al lavoro, che probabilmente arriva dalla cultura contadina delle colline piemontesi, si concede uno spazio per la sua crescita interiore.

Possiamo comprendere quanto sia importante per lui questo suo “spazio” dalla sua frase preferita di Cesare Pavese.

““Tu sei tutto nel gesto che fai” dice Nefele a Issione nel primo dei Dialoghi con Leucò e intende il completarsi dell’esistenza titanica nell’azione mortale. L’uomo, come Issione, è nelle proprie azioni.

Questa è la frase che più di ogni altro credo debba guidarci nella nostra quotidianità. Essere tutto in quello che facciamo significa da una parte dialogare sinceramente con la nostra identità, essere di fronte ad uno specchio interiore e sostenere quello sguardo; dall’altra vuol dire essere sempre mente e cuore, non distinguere mai la parte razionale da quella emotiva: rimanere umani in un mondo che ci vuole divisi, dentro e fuori di noi.”

La lettura ha un ruolo determinante nella vita di Pierluigi, lo accompagna da quando era giovanissimo. A soli 15 anni legge L’Aleph di Jorge Luis Borges: “un pugno in faccia che mi ha cambiato la testa”. Confrontarsi con la “grande” letteratura per lui è quasi d’obbligo, la lettura deve essere “scomoda” e farti andare oltre: “ti apre un universo di significati, oltre il limite fisico della siepe, come insegna Leopardi, che sono pronti ad essere acquisiti, compresi e capiti. La letteratura ti dà la predisposizione a sognare, a immaginare. Ti insegna ad andare oltre, ti dice che al di là della collina c’è il mare e quindi il viaggio”.

Con Pierluigi ci conosciamo ormai da 18 anni, in passato abbiamo chiacchierato moltissimo ed è sempre stato molto stimolante. Ho un ricordo nitido di quando andavo in Fondazione con i giornalisti per “conoscere” Cesare Pavese e del loro sguardo affascinato e catturato dalle parole di Pierluigi che scorrevano come la rugiada in una rosa: delicata e nutriente.

L’amore di Pierluigi per la letteratura e per Cesare Pavese è evidente come il suo amore per Santo Stefano Belbo, il paese che lo ha “fregato” e forse anche “stregato” con il suo paesaggio e le sue colline. Quelle colline, che come scrive Pavese, restano “immobili come fossero secoli” e come racconta con pathos Pierluigi, “è come se fossero immortali o comunque che durano di più della vita umana del singolo individuo, probabilmente noi siamo figli di queste colline, siamo figli di questa luna, siamo figli dei falò, siamo figli di tutta quella cultura e tradizione che ti danno un’identità fortissima, immediatamente riconoscibile e che ti lega profondamente.”

Laureato in Lettere alla facoltà di Pavia, Pierluigi ha una missione ben precisa, quella di portare la cultura a Santo Stefano Belbo ma anche nel mondo, cosa che gli sta riuscendo molto bene.

Andiamo un attimo indietro nel tempo, nel tempo di Pierluigi. Da dove arriva e come arriva il suo amore per la cultura, per la letteratura?

Mi racconta di quando era ragazzino e del suo temperamento anarchico, che addirittura gli fa perdere un anno al liceo. Probabilmente, la sua, era “fame di vita”, che spesso, nel periodo adolescenziale, è come una furia incontrollabile. Prendi di mira le istituzioni con cui dialoghi in quel momento, la famiglia e la scuola, in un dialogo spesso falsato da un costante lavorio introspettivo.

A volte però, come lo stesso Pierluigi afferma, le disavventure diventano un’opportunità: grazie alla sua bocciatura incontra nuovi docenti che gli offrono la possibilità di affrontare la scuola in maniera diversa, e un insegnante in particolare, quello di italiano, gli fa scoprire la passione per la letteratura. Per Pierluigi i talenti hanno bisogno di essere riconosciuti e sostenuti, la scuola spesso non aiuta a scoprire e valorizzare le attitudini dei ragazzi. Anche per questo motivo, negli ultimi anni, Pierluigi ha lavorato a due progetti di divulgazione culturale legati alla letteratura: la startup Betwyll, evoluzione dell’esperienza di “TwLetteratura” e my social reading nato dalla collaborazione con la casa editrice Pearson.*

Dall’incontro con i nuovi insegnati, Pierluigi diventa architetto di sé stesso riempiendo il vuoto di quegli anni con la cultura. A questo proposito, in quel periodo, era appassionato di architettura: “Alle superiori mi interessava capire come l’architetto gestisce lo spazio a disposizione e come lo vuole plasmare. Ero incuriosito di come veniva definito e successivamente assumeva un senso.” Il concetto del vuoto mi ricorda quanto sia importante e indispensabile concederci questo “vuoto” dentro di noi per agevolare la co-creazione, quel luogo o non luogo dove troviamo la nostra vera essenza.

I CONCERTI DEL PAVESE FESTIVAL!

All’Università di Pavia trova il suo spazio ideale che riempie con le risposte di cui aveva bisogno in quel momento e la “fame”, del periodo adolescenziale, viene in parte appagata. Lo studio profondo su Cesare Pavese si concretizza con la tesi di laurea e successivamente, nel 2004, con l’inizio del suo lavoro al Centro Studi Cesare Pavese (il nome di quegli anni della Fondazione).

Pierluigi inizia a lavorare al Pavese Festival, l’evento di Santo Stefano Belbo dedicato allo scrittore, facendo ogni tipo di lavoro e allo stesso tempo continuando a mantenere il suo percorso di ricerca e di studio su Pavese. 

Uno dei suoi obiettivi è quello di fare diventare la cultura “un motore di aggregazione e di crescita, in un messaggio più colloquiale, immediato e di conseguenza innovativo”. Per fare questo, Pierluigi prende inspirazione da Cesare Pavese che coraggiosamente porta l’esperienza della letteratura americana in Italia in un’epoca complessa, quella del fascismo.

Un tenero ricordo!

“Mio nonno era un produttore di vino qui a Santo Stefano Belbo. Era sempre attento a non sprecare nulla, atteggiamento che arriva dalla cultura piemontese e contadina.

Mi ricordo che quando andavo a vendemmiare con lui mi diceva di correre dietro all’acino d’uva che cadeva giù dalla collina per poi prenderlo. Io andavo insieme al mio cagnolino in segno di rispetto anche senza comprendere esattamente il perché. Allo stesso modo, non capivo la sua abitudine di buttare per terra l’ultimo dito di vino dal bicchiere che stava bevendo: “non lo so” era la risposta di mio nonno quando incuriosito chiedevo la motivazione di questo gesto. Quando sono cresciuto, grazie ai miei studi di antropologia, tutto mi è stato chiaro: è un antichissimo gesto contadino che simboleggia un restituire alla terra quel poco che la terra aveva dato.
Io voglio fare un po’ lo stesso, sto cercando di ridare a Santo Stefano Belbo quello che Santo Stefano mi sta dando.”

Pierluigi mi confida un altro bel ricordo, questa volta legato a suo padre che non c’è più.

“Mio padre coltivava il mais otto file per fare la farina e la polenta, lo faceva un po’ per gioco, infatti ne produceva soltanto 50 kg all’anno. Ho ereditato questi chicchi che tutti gli anni semino ad aprile e raccolgo a agosto/settembre insieme a mio figlio Guglielmo, il più grande dei miei figli, e successivamente con un piccolo mulino a pietra per uso domestico ricavo la farina. 

Dal lockdown ho cominciato a regalare agli amici un kg di farina per Natale. Mio padre si chiamava Natale, questo per me è un modo per ricordarlo e regalare un po’ della mia storia alle persone a cui voglio bene.”

Ci sarebbe ancora tanto da raccontare su Pierluigi, ma sono sicura che ci saranno occasioni per un altro viaggio oltre la “siepe”. 

Il consiglio di Pierluigi!

Essere sempre innovativi a livello professionale e personale, crescere sempre, cercare di investire sempre in sé stessi con la formazione. Non fermarsi mai, non accontentarsi mai, non sedersi mai. Non bisogna essere pigri.
Dal punto di vista professionale bisogna cercare di essere sempre aggiornati e consapevoli del mondo in cui viviamo e lavoriamo. Scrutare le opportunità, trovare la propria unicità e scoprire quello che gli altri non vedono. Quando lo hai trovato non fermarti all’oggi ma guarda ancora avanti.

© Foto di Cesare Pavese e Pavese Festival: Fondazione Cesare Pavese

*prossimamente un approfondimento sui progetti.