Ero partita con l’intenzione di inserire questo articolo nella categoria degli spunti, però mentre ascoltavo quanto le persone incontrate mi andavano raccontando, mi sono resa conto che c’era dietro una bella storia da raccontare, una storia di interconnessione tra essere umano e natura, di come quest’ultima resista ai cambiamenti e si conceda con “amore” al suo compagno di “vita”, l’uomo.

Prima di entrare nel vivo della storia vi descrivo lo scenario: sono in provincia di Cuneo, in Alta Langa, un luogo magico, che “parla” ai suoi abitanti e alle persone di passaggio attraverso una natura rigogliosa, maestosa e carica di un’energia magnetizzante. Qui in realtà sembra essere l’uomo ospite della natura, in un tacito accordo di condivisione e di rispetto.

La natura è fatta di visibile e invisibile, di rumori e di silenzi, di palpabile e impalpabile: penso al vento, di quanto nei millenni, a volte in silenzio altre volte meno, abbia contribuito a plasmare le montagne e le colline che oggi abbiamo la fortuna di ammirare. Come una formichina operaia trasporta da una parte all’altra il suo nutrimento più prezioso, il vento porta con sé qualcosa di straordinario che solo attraverso i sensi possiamo cogliere. Ci accorgiamo di lui quando vediamo un albero chinare il suo capo, quando tutto d’un tratto veniamo avvolti da un profumo che come una “madeleine” proustiana ci riporta ad un ricordo lontano, quando con una carezza ci rammenta che lui è lì con noi a tenerci compagnia. In Alta Langa il vento che arriva dal mare prende il nome di Ma’rin e appena entra in contatto con questa terra avviene un matrimonio spumeggiante.

La parola da cui ho tratto ispirazione è sinantropismo, il termine che in greco è formato da syn-, “assieme” + anthropos, “uomo” e descrive la tendenza di specie animali o vegetali selvatici di colonizzare ambienti modificati dalla mano dell’uomo. Quante volte ci è capitato di vedere delle erbe selvatiche attorno alle abitazioni dei centri abitati, tra le intercapedini dei marciapiedi, nei giardini o nei parchi: sono proprio loro, le erbe sinantropiche.

In una bella giornata di sole mi trovo in compagnia di un giovane e talentuoso chef, Paolo Griffa, e un esperto di erbe spontanee, Franco Lodini, che conducono me e un gruppo di ospiti in un viaggio alla scoperta di un mondo che solitamente ignoriamo. Abbiamo percorso soltanto 300 metri attorno ad un casolare che ospita il ristorante “Le piemontesine” ad Igliano e davanti a noi si è aperto un microcosmo multiforme. Tra nozioni di botanica e di cucina siamo rimasti stupiti da quanta varietà di erbe spontanee abbiamo intorno a noi e di quanti usi ne possiamo fare, soprattutto in cucina, per non parlare delle curiosità celate dietro una semplice foglia o fiore.

Le spiegazioni e i racconti di Paolo e Franco mi hanno invogliato ad approfondire alcuni argomenti. La pratica del foraging, andare per boschi e campi a raccogliere erbe selvatiche, è molto antica e negli anni si era persa, ma ultimamente sta rifiorendo anche grazie a cuochi e chef che utilizzano erbe selvatiche e ne diffondono la cultura. Le nostre guide speciali ci tengono però a sottolineare che occorre prestare molta attenzione, perché ci sono erbe tossiche che, anche se non mettono in pericolo la nostra vita, di certo bene non fanno. Le nozioni sulle piante sono talmente vaste e varie che è necessaria una conoscenza adeguata, basti pensare che in alcuni casi sono i fiori ad essere tossici e invece in altri lo sono le foglie.

Alcune erbe spontanee trovate lungo il percorso:
Nepitella (Clinopodium nepeta), Carota Selvatica (Daucus carota), Artemisia (Artemisia vulgaris), Pimpinella (Pimpinella anisum), Farinello (Chenopodium album), Geranio selvatico (Geranium sylvaticum), aparine (Galium aparine), tarassaco (Taraxacum officinale), cicoria selvatica (Cichorium intybus), lattuga selvatica (Lactuca virosa), malva (Malva sylvestris), Altea (Althaea officinalis), Origano selvatico (Origanum vulgare), Viperina (Echium vulgare), Camomilla selvatica (Achillea ligustica), Erisimo (Sisymbrium officinale o Erysimum officinale), iperico (Hypericum perforatum), Assenzio (Artemisia absinthium), salvia selvatic (salvia pratensis), Parietaria (Parietaria officinalis).

Ci sono poi tantissime curiosità sulle erbe selvatiche: quella della nascita del marshmallow dall’altea, quella del fiore della carota selvatica dal quale si ricava l’inchiostro da un punto specifico al centro del suo “ombrello” fiorito, o l’invenzione del velcro adesivo da parte di uno svizzero che, mentre passeggiava con il suo cane nel bosco, osservò piccoli arbusti che si erano attaccati al pelo dell’animale e sui suoi abiti o ancora quella della parietaria, la pianta pelosa, anche chiamata erba vetriola, che veniva anticamente utilizzata per pulire i vetri, i fondi di bottiglia e i recipienti di rame che contenevano il cibo.

Non vi ho ancora parlato dell’uso in cucina delle erbe selvatiche, del quale Paolo è maestro. La dimenticanza in realtà è stata intenzionale, perché con Paolo non servono nozioni, spiegazioni, che sono sostituite dalla vista, l’olfatto, il gusto e il tatto appagati appieno dai suoi piatti creati appositamente per noi, nei quali ho visto gioia e gioco, ho sentito profumi della natura sapientemente “sposati”.  Al gusto mi è arrivato l’amore e la cura che Paolo infonde in ciò che cucina e dulcis in fundo, la sensazione di familiarità al palato del cibo accolto in bocca. 

Qui ho ritrovato un Paolo più maturo, con una sensibilità spiccata e un’identità raffinata. Quando l’ho conosciuto, in occasione della selezione del Bocuse d’Or Italia nel 2017, si vedeva chiaramente che Paolo aveva i numeri per diventare un “interprete” speciale, tant’è che nel 2019 conquista la stella Michelin e attualmente lo troviamo al Grand Hotel Royal e Golf a Courmayeur.

Abbiamo incontrato anche Davide Scabin, probabilmente uno dei più grandi interpreti della ricerca culinaria, del quale mi risuona una frase in particolare: “Il gusto deve portare ad un piacere intenso, ad una emozione…nei piatti deve trasparire l’anima, non solo il cervello”.

Nei piatti di Paolo ho trovato l’”anima” di cui parla Scabin.

Ma’rin è un progetto che attraverso i cinque sensi fornisce agli abitanti e a chi lavora nel turismo in Alta Langa uno storytelling del territorio differente e accattivante per trasmetterlo in maniera efficace ai visitatori.

© Galleria 1: Tommaso Agate